sabato 23 luglio 2011

Un po' l'ora notturna - Andreatta

Umberto Pasqui, Un po' l'ora notturna


Edizioni Kimerik, 2006

 

Recensione di Emanuela Andreatta
(Pubblicata sul quotidiano "La Voce di Romagna" del 28 agosto 2006, pag. 23)


Ma come sono fortunate quelle zollette di zucchero scampate alla morte per annegamento nel caffè…

“Raramente nella sua vita si era sentito infelice (ultimamente mai) ed in quei momenti lo era perché insoddisfatto: voleva risolvere il mistero, ma non sapeva come riuscirvi, o non trovava il coraggio né la forza per compiere il passo decisivo (…). Del suo stato s’accorse soltanto una tortora che gli si avvicinò mormorandogli parole di conforto”. Queste poche righe sono tratte da uno dei testi che compongono “Un po’ l’ora notturna… ” (Kimerik Edizioni), una raccolta di racconti – quattordici in tutto, quattro dei quali inediti – di Umberto Pasqui, giovane collega de “La Voce” con una laurea in giurisprudenza nel cassetto e una grande passione per la scrittura, che egli da tempo riversa, oltre che nelle pagine del giornale, in alcuni periodici letterari di cui è ricca la nostra regione. Dalla citazione emerge immediato uno dei caratteri distintivi della vena narrativa di Pasqui: l’assoluta naturalezza con cui, nelle sue storie, il mondo degli umani s’interseca – o s’intreccia, si sovrappone quasi – con quello degli animali e degli oggetti solitamente inanimati. Accade perciò che l’“io narrante” di un racconto sia uno specchio, sgomento per il fatto di non essersi mai potuto realmente vedere; oppure che una fanciulla si ritrovi kafkianamente trasformata in una succosa pesca solo perché ne ha annusato il profumo; o, ancora, che ad un’altra ragazza capiti di venir rimproverata dagli uccelli, dalle onde e dalle nuvole per aver inconsapevolmente sottratto loro il vento, perdutamente innamoratosi del suo dolce viso. Dialoghi arguti, atmosfere sognanti, sottili ironie – quando non esilaranti invenzioni, come nel caso del racconto “La dolce evasione”, in cui protagoniste sono alcune zollette di zucchero, ognuna individuata con tanto di nome classicheggiante, fortunosamente scampate alla morte per annegamento nel caffè – pervadono le pagine di Pasqui, surreali anche quando s’avventurano nei territori dell’ansia o dello spavento. Fanno venire alla mente gli universi immaginifici delle nostre infanzie, quando non sorprendeva affatto che il cielo avesse lo stesso colore di una cravattina indossata per la Prima Comunione (e che perciò il ricordo di tutto quell’azzurro rimanesse nella memoria così indelebile da valicare anche i confini del tempo se per caso quell’accessorio rispunta dal fondo di un armadio). Soprattutto, rievocano i soggetti dei tanti dipinti, magrittiani nel segno e nello spirito, realizzati dal nonno di Umberto, Enzo Pasqui, un apprezzato artista che di professione ha però fatto tutt’altro (anche l’inventore meccanico): un tratto di famiglia, insomma, accomuna gli esiti figurativi dell’uno a quelli letterari dell’altro. Con la poesia, ora ilare ora malinconica, che entrambi riescono sempre a sfiorare.

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