domenica 24 agosto 2014

Odoacre sconosciuto

Il racconto Odoacre sconosciuto è già stato pubblicato dalla casa editrice Prospettiva nel 2002. In questa veste il testo viene riproposto dopo l'uscita dal catalogo.
 
Ecco l'ultima versione (2014): l'immagine di copertina è di Giorgio Pondi.
 
 
 
Ecco dove trovarlo:

Intraprendere una lettura quando si sa che a scrivere è Umberto Pasqui lo si fa ben volentieri. Prima ancora d’entrare nel vivo della trama ci si predispone ad un prioritario entusiasmo che anticipa la certezza di poter essere attivamente-passivamente (pur volendolo a priori ci s’incaglia nella piacevolissima tirannia d’un assuefacente coinvolgimento) assorbiti dal piacere d’un linguaggio da decifrare attentamente.
Anzitutto non si può mai sapere dove voglia andare a parare la fantasia di quest’originale, avvolgente autore. Anche qualora sembri esordire nella mera puerizia propinante la mediocre narrazione d’un trito o quanto meno poco diversivo quotidiano, che si potrebbe prestare ad una proiezione d’idea alquanto limitativa, irrilevante dal punto di vista letterario, non passa il tempo di leggere la primissima pagina che, ribadendo le sue doti letterarie e, di conseguenza, smentendo lo scialbo inizio, ci si accorge già degli eccitanti, invitanti prodromi che ne seguiranno. Effetto che potrebbe apparire nello specifico di questo revisionato racconto se non si facesse dovuta mente locale al titolo. Titolo, questo, ambiguo nel cogliere indicazioni che rivelino un concreto anticipo del narrato. Ambiguo e purtuttavia emblematico. Non solo per quello sconosciuto, attributo che ne allarga la prospettiva, inducendo di per sé a riflettere. Ma soprattutto perché, proprio in forza di tale sua conclamata anfibologia, si presta ad essere letto come titolo multimetaforico, implicante un primario, ed appunto risolutivo, scervellamento che porta, nella sua intuibile scomposizione, ad una trivalente indicazione. Ossia: Odoacre pensabile come Odo (prima persona presente del verbo sentire) + acre (aggettivo funzionale ad un addirittura triplo approccio dei sensi, concernente il gusto o sapore, l’odore nonché l’aspetto caratteriale d’una persona). Laddove riterrei che la vera, larga idea stia nell’amplificazione del senso dell’olfatto, che forse, sul piano intuitivo, è la meno scontata.
Probabilmente, se non fosse sembrato troppo artefatto, Pasqui avrebbe potuto inserire un inizio titolo del genere: Odo(re)acre, quale univoca metafora, blandamente sinestesia, rappresentativa dei lutti dei tanti fratelli (ben undici) subiti dal protagonista, in aggiunta ad un’esistenza grama patita sotto la dittatura delle due ulteriori sorelle maggiori, gli unici consanguinei legami ancora a lui coesistenti.
Già questo prioritario suggerimento, promanante dal titolo, mette, a scanso d’equivoci, il diligente lettore nell’ottimale stato d’animo che avvalla la lettura del libro. In quanto, conoscendo anche la tipologia narrativa del nostro scrittore, s’intuisce che al di là d’un’eventuale apparente incipit poco incisivo, da ritenersi volutamente tale, il titolo preannuncia un improvviso, perentorio e sostanziale, cambio di registro scenico.
E, proprio così, nel metodico proseguire del racconto emerge presto un altro fattore di stimolo alla lettura: l’ignoranza (ridondante timbro col quale Pasqui vuole sollecitare l’attenzione, perché, da qui in poi, sarà fattore decisivo a marcare l’inattesa svolta della trama) della ferrea essenza volonterosa di Odoacre, che risalta, in forte controtendenza, nel disegno temperamentale del personaggio. Da una parte senza spina dorsale e dall’altra assiduo artefice dell’agire, nella parte più affabulante della storia. Un eroe-manichino, o se vogliamo una sorta di cane fedele, un robot tutto cuore e braccia, privo però d’una sua cerebrale autonomia, capace solo d’obbedienza e sottomissione. Apparenza però che scaturisce nell’iniziale presentazione del personaggio, che comunque ne riguarda il primo squarcio di realtà, completamente scevra d’ogni suo indipendente coinvolgimento. Odoacre e le sue due sorelle schematizzano in maniera perfetta quel rapporto psicologico in cui un individuo, perdente (ossia Odoacre) è succube, ed almeno un altro individuo, vincente (le due sorelle) ne è incube.
È perciò evidente come Pasqui avrebbe potuto ulteriormente riscrivere il titolo: Odoa(la)cre [leggasi più scorrevolmente: odo-alacre] sconosciuto. Dove l’attributo sconosciuto calzerebbe a pennello. Tuttavia sta bene così! È altresì evidente che non possano sprecarsi tante, troppe, osservazioni solo sul titolo d’un racconto. Fatto sta che quest’ultima presunta caratteristica, dell’alacrità, che mette in luce una certa potenzialità del personaggio principale, entrando nel vivo dell’intreccio, sarà determinante nel rivoluzionare la personalità di Odoacre!
In ogni caso, la seconda parte del titolo (sconosciuto) potrà essere meglio riconsiderata nel momento in cui la cupidezza delle possessive sorelle sarà scalzata dall’opposto libertario sentimento d’amore che Livia gli tributerà. Guarda caso, proprio in quel mentre, il nome Odoacre diventa nel narrato, grazie a Livia, Dodè, sul quale nome non sembra più possibile azzardare ipotesi. Nome libero da qualsiasi interferenza, degno d’una pienezza tutta sua.
Sarà quando l’originaria dimensione del narrato incomincerà a stratificarsi, assumendo gli usuali (con riferimento al nostro autore) risvolti onirici e nel contempo fabulatori, che finalmente astrarranno dall’opaca realtà ed assurgeranno invece ad immaginosa quanto distraente (significando ‘coinvolgente’) finzione.
La metamorfosi di Odoacre avviene navigando, imbarcatosi sulla sua piccola goletta (che nell’inventivo immaginario del protagonista è uno “sciabecco”).
Imbarcazione dal doppio autorevole nome di donna, che incarna la forza genetica d’una nuova maternità: Teodolinda (nome impostole da un parente) e Amalasunta (nome che Odoacre avrebbe preferito). Erano, queste, nella storia del medioevo, due donne barbare, longobarda la prima, ostrogota la seconda, le quali ebbero l’opportunità di governo interinale nelle veci dei relativi sovrani. Chiaro simbolo d’un grembo materno di rinascita.
Odoacre, nel suo svagato navigare, si perde e s’inoltra nella transitoria favola che gli cambierà la vita, intimamente.
Livia lo segue per conto suo ed anche lei si perde in balia del mare.
Alla fine saranno ritrovati insieme, issati a bordo dalla rete d’un’imbarcazione di pescatori, sottratti ad un’alga che li aveva fagocitati e che per sette giorni li aveva tenuti incapsulati nel suo involucro.
Sette giorni, lo stesso periodo della divina creazione: proprio il settimo giorno Dio si riposò. Ulteriore indice di catarsi. E si badi bene che la parentesi in cui subentra la favola, o comunque l’immaginario, è collocata in un limite di tempo ben più ampio. Un mondo il cui anno solare è misurato da atipiche stagioni, assolutamente irrelate e che costruiscono spazi temporali altrettanto fantasiosi. Non a caso Pasqui suddivide il contesto del racconto in quadranti piuttosto che in capitoli.
Di conseguenza anche gli immaginari mondi, isole, loro fusioni, montagne, promontori, insenature, che si srotolano nelle pagine di questo fantastico libro è inutile anticiparlo quanto siano dissimili dal mondo reale. Chi conosce Umberto Pasqui lo può agevolmente immaginare; chi non lo conosce ancora lo legga e lo capirà. Idem per i personaggi.
Lasciamo perdere i luoghi ma non trascuriamo invece i personaggi.
Sia gli uni che gli altri, come di consueto, nei nomi identificativi assommano altrettante loro peculiarità, spesso contrapposte, ossimori della realtà, e, specialmente le figure animate, chimere dell’esistenza. A parte il realistico, necessario “entourage” umano che fa da sponda ad Odoacre, praticamente Livia e le undici ombre dei suoi defunti fratelli, che appaiono nel tragitto della sua avventura odissea chiedendogli il favore d’aiutarle a superare il limbo della terrena esistenza, le altre figure, quelle precisamente deducibili dalle trame irreali, si possono definire, piuttosto che personaggi, ‘creature’. E mentre le prime, figure di persone realmente esistenti, in una divisione per classi di qualità o di ruoli, ci pervengono tramite l’ottica distorsiva dell’alterato ego di Odoacre, col quale ne avverte anche l’irrimediabile curiosa sorte, tali da essere inquadrati in un vissuto omologo alla relativa definizione (“contromadri”, “frettolenti”, “sivergogni”, “giasentiti”, “ristorrendi”, “piangineve”, “telèbeti”, “parlinvano”, “impegnanti”, “sparachiasso”, “ubisproloqui”, “convadenti”, “precarelle”, “esteridioti”), invece le seconde figure sono esseri impensabili quanto ad una loro possibile effettività. Elenchiamone alcune: “Gheppio Caracalla”; “Domitilla”, fanciulla che diventa regina per aver individuato il perfetto centro acustico dell’Isola delle due Campane;, “Vittoria Mareggiata”; il pesce-filosofo “Nereo”; il trasformista “Martagone del Maggiociondolo”; “Scorpione Elefante”; “Eliopanto”, maestro (pensate un po’) di “tuttologia pressappochistica” che agli amici, invece di dare del tu, dà dell’io (sì, avete capito bene!); il gigantesco, bellicoso lombrico “Cercarogne del Colle Bagnato” e “Barsanofrio”, da quest’ultimo di spada infilzato e tranciato in due, nonché suo padre “Crisobulo”; la “libellula gigante”, quale mezzo d’aerea locomozione; ed una serie di pesci elettrici, suddivisi in 22 specie, e altre creature marine tra cui “placide ascidie”, “minacciosi gigantostraci”, dalle chele spaventose, ed i “narvali”, conduttori di “caporemi”, pirati in senso buono (che fanno del bene anziché il contrario) delle Acque di Ghiaccio, sorta di sirene nane…
Affondando l’analisi nei valori, nel concludere, si può ancora asserire che con questo suo gioioso racconto, in cui il concetto escatologico non assurge solo a limite di paragone ma ne è l’essenza, Umberto Pasqui vuole affiancare ad ogni essere umano, per la sua parte individuale negativa dell’esistere, un barlume di speranza che, pur talora riducendosi al miserrimo lumicino, è opportuno ed auspicabile che non si spenga mai. L’ennesima lezione proveniente dal nostro autore, che, in tutta umiltà, vuole suggellare in questo libro a dir poco paradigmatico.
 
Emilio Diedo
(Prefazione di “Odoacre sconosciuto”)

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